Gallery
Via Stampatori 4, 10122 Torino
Giorgio Persano apre la galleria di Torino nel 1970 con il nome Multipli. Propone opere dell’arte Pop americana e contemporaneamente cura la produzione di lavori a tiratura limitata con gli artisti dell’Arte Povera.
Dal 1975 inizia con il proprio nome un’attività regolare di progettazione, produzione di opere e mostre che vede coinvolti artisti quali Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio, Mimmo Paladino, Sol Lewitt, Joseph Kosuth, Gerhard Merz, Julião Sarmento e più giovani da Per Barclay, Susy Gòmez, Costas Varotsos, Maria Serebriakova, Rob Birza, Alfredo Romano, a Paolo Grassino e Luisa Rabbia. Nel 2005 apre un nuovo grande spazio in via Principessa Clotilde, dal 2010 sede unica della galleria, che offre agli artisti la possibilità di ‘sperimentare’ anche lavori di grandi dimensioni, tra questi Lawrence Weiner, Nunzio, Pedro Cabrita Reis, Eliseo Mattiacci, Marco Gastini, Lida Abdul, Antoni Abad, Jan Dibbets e Susan Norrie.
Exhibits
03.11.2024 - 25.01.2025
opening: 02.11.2024
03.11.2024 - 25.01.2025
Julião Sarmento
Inadequate Readings (with every breath), 2003
acetato di polivinile, pigmenti, gesso e acrilico su tela di cotone grezzo | polyvinyl acetate, pigments, chalk and acrylic on raw cotton canvas
270 x 404 cm
Courtesy Galleria Giorgio Persano
06.07.2024 - 19.10.2024
opening: 05.07.2024
06.07.2024 - 19.10.2024
Mostra 1
NICOLA DE MARIA, JAN DIBBETS, MARCO GASTINI, MARIO MERZ, MARISA MERZ, NUNZIO, MICHELANGELO PISTOLETTO, JULIÃO SARMENTO, COSTAS VAROTSOS, MICHELE ZAZA
Mostra 2
LUISA RABBIA
The Gods
Giorgio Persano ha il piacere di ospitare, nel giardino interno di Palazzo Scaglia di Verrua, tre nuove opere pittoriche di Luisa Rabbia, parte della recente serie intitolata The Gods.
La mostra, concepita come spazio di riflessione sulla vulnerabilità e l’imprevedibilità dell’esistenza umana, intreccia eventi attuali con cosmologia e elementi letterari come Le metamorfosi di Ovidio – peraltro raffigurate anche nel ciclo di affreschi seicenteschi sulla facciata e nel cortile della galleria. Per Ovidio, una vera comprensione del mondo significa negare la sua oppressiva solidità e permettere che tutto si trasformi in qualcos’altro. Conseguentemente, la metamorfosi da una materia all’altra è possibile, nonostante le apparenze esterne, perché tutte le forme originano dalla stessa sostanza. Questo legame intrinseco tra tutte le entità viventi giace al centro del linguaggio artistico di Luisa Rabbia. Rappresentazioni di esseri umani, corpi che evocano paesaggi, forme cellulari e vegetali, tutto si fonde nel suo lavoro riflettendo l’interesse dell’artista per il concetto che tutte le cose sono la causa cooperante di tutto quello che esiste.
Utilizzando un linguaggio espressivo e personale, le opere di Luisa Rabbia rappresentano corpi più o meno astratti che evocano temporalità, spiritualità, paesaggi interiori e interconnessione fra le forme viventi. Nonostante sia il momento contemporaneo ad inspirarla, l’artista cerca un linguaggio atemporale, che si estenda oltre il quotidiano e inviti a ponderare le complessità dell’esistenza umana.
31.10.2023 - 02.03.2024
opening: 28.10.2023
31.10.2023 - 02.03.2024
Nicola De Maria
28 ottobre 2023 – 24 febbraio 2024
+
Marisa Merz
28 ottobre 2023 – 24 febbraio 2024
Mostra in contemporanea da Giorgio Persano e Tucci Russo, Torino, in collaborazione con la Fondazione Merz.
21.06.2023 - 30.09.2023
opening: 20.06.2023
21.06.2023 - 30.09.2023
Mostra 1
GIUSEPPE LANA : “Drifting back and forth”
La personale di Giuseppe Lana “Drifting back and forth” parte del più ampio progetto di ricerca denominato “Passaggi”, recentemente presentato all’Istituto Italiano di Cultura di Madrid (febbraio – aprile 2023).
In “Passaggi” l’artista indaga l’esigenza dell’uomo, sia egli un singolo individuo o un’intera comunità, di muoversi sulla terra, interrogandosi su come questa libertà, nella realtà contemporanea, entri in conflitto con interessi geopolitici, apparati burocratici statali e ideologie reazionarie.
All’interno della galleria, grandi putrelle di ferro si impongono con ostile autorità delimitando lo spazio fisico ed evocando un immaginario bellico. Appena abbozzate, nella loro austerità e incompiutezza queste simboleggiano lo spirito con cui le nazioni affrontano il fenomeno migratorio: uno sforzo sufficiente a ostacolare, lontano da soluzioni concrete.
In mostra le sculture dialogano con grandi tele costellate da una pittura invisibile e silenziosa, abitata da sciami di minuscole zanzare, “insetti che popolano uno spazio ideale, suggeriscono un transito che, nell’apparente miniatura della scala dimensionale, nasconde la gigantesca drammatica portata di un fenomeno che, inesorabile, contrassegna le sorti di molte persone e corrode le coscienze.” (Agata Polizzi)
In “Drifting back and forth” (“Avanti e indietro, alla deriva”), Lana esplora le diverse nature dei processi migratori e la loro gestione, riconoscendo quanto il tentativo di arginare il fenomeno sia spesso veicolato da politiche miopi e inefficaci, in un susseguirsi di azioni ripetitive ed improduttive che non solo non rispondono al bisogno di trovare luoghi sicuri da abitare, ma riducono lo spostamento delle masse ad una vera e propria lotta per la sopravvivenza.
Mostra 2
GROUP SHOW : Opere di Robert Barry, Joseph Kosuth, Julian Schnabel e Lawrence Weiner
Nello spazio del giardino interno della galleria, la galleria espone una selezione di importanti lavori di grandi maestri contemporanei: Robert Barry, Joseph Kosuth e Lawrence Weiner, tra i principali esponenti e teorizzatori dell’arte concettuale, e Julian Schnabel, illustre rappresentante del movimento neoespressionista americano. Il progetto espositivo si articola intorno a quattro opere accumunate dall’uso del linguaggio che, per citare Weiner, è cruciale in quanto suggerisce che non è necessario creare o costruire per fare arte. I lavori in mostra utilizzano la scrittura – un’incursione nella ricerca di Schnabel, una prassi per gli altri – come strumento per alterare il convenzionale rapporto tra significato e significante, lasciando il massimo livello di autonomia interpretativa al pubblico. Le parole, secondo Barry, pur rispondendo ad una estetica e ad uno spazio che occupano e creano intorno a sé, sono da intendersi più come segni per dimostrare che c’è arte, indicare la direzione verso la quale questa esiste, per preparare ad essa, invitando a trascendere i limiti della materialità. Ed è questa nuova dimensione creativa che presenta l’oggetto artistico come puro linguaggio ad aver contribuito ad una significativa svolta nella storia dell’arte.
Robert Barry (New York, 1936). Vive e lavora nel New Jersey. Ha partecipato alla Biennale di Parigi (1971), Documenta 5 (1972) e la Biennale di Venezia (1972). Gli sono state dedicate mostre personali alla Tate Gallery di Londra, alla Kunsthalle di Norimberga, al Kustmuseum di Lucerna, allo Stedelijk Museum di Amsterdam e alla Kunsthalle di Losanna. I suoi lavori figurano nelle collezioni dei maggiori musei del mondo, tra questi menzioniamo: Whitney Museum of American Art, New York; Museum of Modern Art, New York; Centre Georges Pompidou, Parigi; Kunstmuseum, Basilea; National Gallery of Art, Washington; Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Museum für Kunst Monderne Frankfurt am Main, Francoforte; Museum of Contemporary Art, Los Angeles; Musée d’Orsay, Parigi.
Joseph Kosuth (Toledo, 1945). Vive e lavora a New York. Nel corso della sua carriera ha partecipato a sette Documenta e otto Biennali di Venezia, ricevendo nell’edizione del ’93 la Menzione d’Onore. Tra gli altri premi e onorificenze di cui è stato insignito ricordiamo il Brandeis Award (1990), il Frederick Wiseman Award (1991), la carica di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres della Repubblica Francese (1993) e la Decorazione d’Onore in Oro per i servizi resi alla Repubblica Austriaca (2003). Sue opere sono presenti nelle collezioni dei musei d’arte moderna e contemporanea più importanti del mondo: Museum of Modern Art, New York; Tate Gallery, Londra; Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Whitney Museum of American Art, New York; Van Abbemuseum, Eindhoven; Stedelijk Museum, Amsterdam; Musée du Louvre, Parigi; National Gallery of Victoria, Melbourne; Museum of Contemporary Art, Sydney; Centre Georges Pompidou, Parigi; Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
Julian Schnabel (New York, 1951). Vive e lavora a New York e Montauk, Long Island. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1980 e nel 1982. Artista poliedrico, oltre la pittura la sua ricerca abbraccia scultura, cinema, architettura e design. Tra le istituzioni che accolgono i suoi lavori nelle loro collezioni permanenti ricordiamo: Museum of Modern Art, New York; Whitney Museum of American Art, New York; Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Solomon R. Guggenheim Museum, Bilbao; Metropolitan Museum of Art, New York; Tate Gallery, Londra; San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco; Centre Georges Pompidou, Parigi.
Lawrence Weiner (New York, 1942 – 2021). Durante la sua carriera ha partecipato a quattro edizioni di Documenta e ad altrettante Biennali di Venezia. Tra i numerosi premi e onorificenze ricevuti, ricordiamo due National Endowments for the Arts Fellowships (1976 e 1983), una Guggenheim Fellowship (1994), il Premio Wolfgang Hahn (1995), la Skowhegan Medal for Painting/Conceptual Art (1999), il Roswitha Haftmann Foundation Prize (2015), il Wolf Prize e l’Aspen Award for Art (2017). Nel 2022 l’Arsenale di Venezia ha ospitato un’importante retrospettiva del suo lavoro. Opere dell’artista compaiono nelle collezioni del British Museum, Londra; Museum of Contemporary Art, Los Angeles; Museum of Modern Art, New York; Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Art Institute, Chicago; National Gallery of Art, Washington; Centre Georges Pompidou, Parigi; Tate Modern, Londra
24.01.2023 - 06.05.2023
opening: 23.01.2023
24.01.2023 - 06.05.2023
Giorgio Persano presenta una nuova personale di Susy Gómez, artista spagnola che da quasi trent’anni collabora con la galleria. Il progetto espositivo si articola intorno ad inedite fotografie di grande formato ed una importante scultura storica, Via Nuova (1995-1997), dalla quale trae il titolo la mostra.
Al centro della sala due corpi dorati si protendono l’uno verso l’altro, entità trasfigurate plasmate restituendo forma alla memoria di un gesto. Prodotti da un’azione performativa, l’artista ha ricoperto il suo corpo con una pasta di porcellana, rimanendo per ore in uno stato meditativo, fino a quando la massa non ha raggiunto la solidità di un vaso e si è aperta come una conchiglia. Questi “gusci” sono poi stati rivestiti di una patina di oro che, in continuità concettuale con l’arte del passato, si è fatta tramite tra la realtà fisica e quella incorporea. Ed è proprio questa la condizione dell’opera, che incarna un ricordo che si dissolve e diventa vestigia dello spirito.
Proseguendo nella sua ricerca fotografica, Gómez seleziona soggetti provenienti da riviste, se ne appropria e vi interviene pittoricamente, coprendo parti dei corpi femminili rappresentati. Le immagini così elaborate sono quindi fotografate, sottoposte a un forte ingrandimento ed infine riprodotte su pannelli di alluminio. Le opere stesse trascendono quindi la loro condizione di fotografie: la dimensione, il supporto metallico che conferisce spessore e materialità, l’essere posizionate a terra, suggeriscono allo spettatore di identificare anch’esse come sculture.
Attraverso una sineddoche visiva dove gli elementi isolati dei soggetti sono esaltati, Gómez riconosce particolari che possono essere qualcosa che non notiamo, o ai quali prestiamo invece attenzione. Nei lavori dell’artista le figure sono dunque celate, nascondono il tutto per rivelare una parte e, su questa parte, l’artista costruisce una riflessione sull’identità individuale e sulla rappresentazione del femminile. Tentando di spezzare gli stereotipi imposti da una società patriarcale e machista, le figure sono presentate in bilico tra materia e trascendenza, facendosi manifesti della difficoltà di raggiungere una totale comprensione e dominio sul proprio corpo.
ALFREDO ROMANO
La galleria Persano è felice di ospitare, nel giardino interno di Palazzo Scaglia di Verrua, i nuovi lavori di Alfredo Romano. Ad una grande un’installazione sonora si affianca un’opera storica ed una inedita serie di pitture su alluminio particolarmente rappresentative della sua ricerca, da sempre sostenuta da un solido impegno etico. Non sarebbe infatti possibile comprendere a pieno il lavoro dell’artista se non colto all’interno del contesto siciliano e del suo retaggio millenario, fatto di culture e poteri in costante ascesa e declino e del rapporto di questi con l’individuo. Le opere di Romano vogliono scuoterci dall’inerzia, comunicando la condizione dell’artista in seno ad una società sopraffatta da conflitti, lotte e disperazione. I temi che vengono affrontati sono sempre complessi e legati alla fragilità della forma, alla precarietà dell’esistenza, alla caducità delle cose, alla solitudine. Le opere, invase dal catrame, appaiono come sedimentazioni geologiche, un monito del tempo che scorre. Sotto il catrame troviamo una pittura, una storia occultata, soffocata, è un quadro che per rivelarsi ne distrugge un altro, un’entità che prevale nella sua densità oscura. La scelta della tecnica è particolarmente evocativa: un materiale edilizio, e perciò usato per costruire, ma che nel colare sembra lava bruciante e distruttiva. Il parallelismo offerto è di un potere che nell’affermazione di se stesso inghiotte e reprime ogni cosa nel tentativo di divenire totale. Come può il singolo opporsi alla compatta visione offerta da quel potere?
Una simile tensione la ritroviamo in Senza titolo (1990), dove i cilindri in marmo ordinati sulla lamiera in alluminio ci restituiscono una storia fossilizzata e impossibile da decifrare. La medesima drammaticità è inoltre evocata dall’installazione sonora. Nella musica di Giuseppe Gavazza rintracciamo una coerente urgenza espressiva, con le panche che paiono vibrare da dentro, trovando nella musica la loro voce. Per l’artista: “Vorrei che il mio lavoro fosse un canto, che lasciasse passare un silenzio e che si allontanasse verso un punto di aspirazione comune. Che ubbidisse alla stratificazione degli antichi avvenimenti storici della nostra tradizione, al sentimento dell’esistenza, e che risvegliasse quel senso di identificazione istintiva che passa attraverso il riconoscimento di un’appartenenza fisica e poetica. Il mio lavoro è come una litania, una preghiera che si articola tra rivelazione (luce) e nascondimento (ombra)”.
Alfredo Romano (Siracusa, 1946), vive e lavora a Siracusa. Nel 1986 espone alla XLII Biennale di Venezia e Giorgio Persano gli dedica la prima di numerose personali nella sua galleria a Torino. Seguono esposizioni alla Galería Montenegro, Madrid, alla Galería Nota Bene, Cadaquès e alla Galerie Patricia Schwarz, Stuttgart. Tra le successive personali si annoverano: “Sueno” e “Nodi”, Galería Oliva Arauna, Madrid; “Unto”, Château de La Napoule, Mandelieu; “Le voyage au bout de la nuit”, Le Creux de l’Enfer Centre d’Art Contemporain, Thiers; “Convitto”, MAMAC Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain, Nizza; Palazzo Bach Hamba, Istituto Alta Cultura, Tunisi; “Sette opere della misericordia”, Palazzo Sant’Elia, Palermo. Si ricordano tra le ultime esposizioni: “Rammendi”, Istituto Italiano di Cultura di Atene; “Una generazione meno. Tra luci e ombre”, Amnesty International, Camp!, Atene; “Siamo tutti Greci”, Museo Benaki, Atene; “Intrecci”, Fondazione Orestiadi, Gibellina, Trapani; “Angelis suis mandavit de te”, Museo Bizantino e Cristiano, Atene; “Angelis suis mandavit de te”, Centro Culturale Europeo, Delfi; FERITOIE – RAMMENDI. L’eternità è l’opposto dell’estinzione, Festival Synoikismos, Elefsina.
Suzy Gómez, Via Nuova
19.10.2022 - 23.12.2022
opening: 18.10.2022
19.10.2022 - 23.12.2022
Giorgio Persano è lieto di presentare, al primo piano di Via Stampatori 4, una nuova personale di Per Barclay, frutto della collaborazione più che trentennale tra l’artista norvegese e la galleria. Nello spazio di Palazzo Scaglia di Verrua due grandi installazioni si interrogano sul concetto di casa, tempo e spazio. Le costruzioni, dapprima riconoscibili come luoghi fisici, vengono immediatamente svuotate della loro funzione abitativa, trasformandosi in spazi assoluti, non contaminati, che pur trasparenti si chiudono all’esterno. Considerate come un’estensione delle celebri camere d’olio dell’artista – nelle quali l’affacciarsi dello spazio reale nel liquido gioca sia formalmente sia concettualmente con la simbologia del doppio, non tanto creando un semplice riflesso, quanto producendo una sensazione psicologica di sprofondamento verso un’altra dimensione – anche le stanze di Barclay riflettono sul tema dell’inaccessibilità, con chiari riferimenti alla pittura nordica del ‘900. Il primo lavoro in mostra è un’opera storica, un “interno” in vetro e ferro sospeso. In questo contrasto visivo tra leggerezza e durezza, irrompe una lama di luce portatrice di vita, che carica il lavoro di speranza: speranza che qualcosa possa comunque nascere in un posto dove vita non c’è. Nell’inedito “Senza titolo” (2022) due strutture in vetro e ferro sono invece montate su muretti di cemento ed ospitano ciascuna un tamburo. Dalle fragili pareti si propagano potenti i colpi degli strumenti, che risuonano allarmanti a minacciare la struttura stessa che li supporta. In un equilibrio di inquietudine e perfezionismo estetico, di ciclo continuo di inizio-fine / dentro-fuori / caldo-freddo / presenza-assenza, le case non case di Barclay divengono così proiezioni di luoghi mentali che invitano lo spettatore a ritrovarvi ricordi comuni: “Il mio lavoro vuole rappresentare la tensione quotidiana, quella specie di ansia che ognuno di noi percepisce nel contrasto tra bellezza e comfort, tra le grandi possibilità proprie del nostro tempo e l’estrema precarietà del nostro vivere.“
Per Barclay (Oslo, 1955), vive e lavora a Torino e Oslo. Ha studiato Storia dell’Arte all’Università di Bergen, completando poi la sua formazione all’Istituto Statale d’Arte di Firenze, all’Accademia di Belle Arti di Bologna ed infine all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1990 partecipa al Padiglione dei Paesi Nordici alla XLIV Biennale di Venezia. Le sue opere sono state esposte in prestigiosi musei nazionali e internazionali, tra i quali: Henie-Onstad Art Centre di Oslo, Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza, Museet for Samtidskunst di Oslo, CCC Centre de Création Contemporaine di Tours, Palacio de Cristal, Parque del Retiro, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, Fondazione Merz di Torino, CAC Málaga Centro De Arte Contemporáneo di Málaga. Tra le mostre più recenti, nel 2014 ha preso parte alla seconda edizione di “Icastica”, ad Arezzo, creando una installazione d’olio nella Chiesa di San Domenico, sotto il crocifisso del Cimabue. Nello stesso anno espone a São Paulo, Brasile, in “Made by Brazilians…Creative Invasion”. Nel 2015 viene invitato a partecipare a “L’albero della cuccagna”, manifestazione ideata da Achille Bonito Oliva, realizzando una camera d’olio a Ca’ Pesaro, Venezia. Nel 2017, ha presentato una sua grande installazione all’inaugurazione del Centre de Création Contemporaine Olivier Debré a Tours, Francia. Nel 2018 ha partecipato a Manifesta 12, Palermo, con una oil room alla Cavallerizza di Palazzo Mazzarino, e nel 2019 ha creato una camera d’olio alla Carpintarias de São Lázaro, Lisbona. Per l’estate 2023 è prevista all’Henie Onstad Kunstsenter di Oslo un’importante personale dell’artista.
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Giorgio Persano è felice di ospitare per la prima volta in galleria Driant Zeneli, artista albanese che nel 2019 ha rappresentato il suo paese alla 58ª Biennale di Venezia. Con il video How deep can a dragonfly swim under the ocean? (A che profondità può volare una libellula sotto l’oceano?), proiettato nello spazio del giardino interno di Via Stampatori 4, l’artista racconta la metamorfosi di una libellula (insectobot) che, pur essendo in grado di muovere le ali, è condannata a non volare mai. Tra i meandri di uno spettrale labirinto di acqua e cemento, l’insetto dipende da una piovra per sopravvivere, ma allo stesso tempo ne è trattenuto, senza possibilità di allontanarsi dalla sua prigionia. Nella forma di favola, la libellula diviene metafora della vera esperienza di un ragazzo albanese, Rilond Risto, che nel 1999 fu condannato per un crimine a scontare ventuno anni d’isolamento nelle carceri albanesi. Seguendo la sua passione per l’arte e la tecnologia, durante la prigionia Risto riuscì a costruire con mezzi di fortuna insetti robotici. Il film è stato girato all’interno della Piramide di Tirana, fatta costruire dalla figlia di Enver Hoxha nel 1988 come mausoleo celebrativo per il dittatore. Negli anni, dopo la caduta del regime nel 1991, l’edificio è stato centro culturale, televisione privata, discoteca, nightclub e spazio di ritrovo di giovani. Oggi la costruzione sta perdendo la sua forma originaria, per venire trasformata dal gruppo di architetti MVRDV in un rinnovato spazio polifunzionale per la vita culturale del paese. Il lavoro di Zeneli è parte della trilogia The animals. Once upon a time… in the present time, ambientata tra edifici brutalisti balcanici: dopo il progetto alla Biblioteca Nazionale di Prishtina in Kosovo No wise fish would escape without flying (2019), nel quale un gruppo di bambini ha realizzato un pesce meccanico di carta impigliato nelle cupole di vetro e acciaio dell’edificio ed inseguito da uno squalo gonfiabile, Zeneli ha realizzato il video nella Piramide di Tirana (2021), per chiudere infine la trilogia con il lavoro The firefly keeps falling and the snake keeps growing (2022), girato nell’Ufficio Postale di Skopje in Nord Macedonia, prodotto dalla Fondazione In Between Art Film e commissionato da Manifesta 14 Prishtina Biennale. Gli animali meccanici di Zeneli incarnano paure, conflitti e speranze profondamente umane e, caricati del peso delle nostre battaglie, muovono i loro fragili ingranaggi in luoghi simbolo dei Balcani, la cui storia recente, dopo la caduta del muro di Berlino, è segnata da una cronica instabilità politica. Nel tentativo di affrancarsi da una società che – come la piovra – nutre ma imprigiona, i protagonisti di queste fiabe contemporanee sono perduti ma, ostinati, continuano a lottare: Ho due paia di ali quasi uguali, bellissime, ma non so volare. / Le mie ali erano mani di uomo. / Dell’uomo mi è rimasto il peso e la colpa. / Ho vissuto a ventuno metri di profondità, ogni metro è lungo un anno. / L’ho percorso tutto, centimetro dopo centimetro. / Le mie ali sono un ingranaggio perfetto, risalgono il labirinto oceanico, toccano la luce e ancora bisbigliano: libertà.
31.05.2022 - 29.07.2022
opening: 28.05.2022
31.05.2022 - 29.07.2022
Dopo la mostra del 2013, Giorgio Persano è felice di presentare, al primo piano di Palazzo Scaglia di Verrua – Torino, una nuova personale di Michele Zaza, dal titolo “La radice del silenzio”, realizzata in collaborazione con l’Artista e il suo Archivio.
La mostra restituisce un dialogo pieno di rimandi tra alcune opere con foto in bianco nero del 1974 e 1975 e un particolare periodo dell’indagine dell’artista risalente alla metà degli anni Novanta.
Se nelle opere degli anni Settanta si fa evidente il “teatro personale e familiare” di una rappresentazione da camera di carattere esistenzialista, le opere degli anni Novanta, sempre in bianco nero, restituiscono una forma più astratta e cifrata, concentrandosi sul volto in primo piano, accostato a forme scultoree dall’aspetto cicladico – sempre fotografate.
Dal 1974 Zaza realizza diverse serie fotografiche con il titolo Mimesi, nelle quali ricorre spesso la sua figura sospesa a testa in giù: “il mio pavimento non era la terra, ma era il cielo: appoggiavo i piedi idealmente sul suolo del cielo, e non sul suolo della terra. L’ovatta ne è metafora per questo. Vi è il desiderio di essere cielo, di essere l’universo”.
In un’opera in mostra (Mimesi, 5 foto) vediamo la testa capovolta e parzialmente annerita che oscilla all’ingiù descrivendo un arco di 360 gradi. Il peso preme e la soffice ovatta contrasta con esso. In corrispondenza delle diverse inclinazioni del capo vi è l’andamento del tempo indicato dalla sveglia, con il quadrante che man mano si cancella.
In altre opere ancora esistenza e assenza, tempo e ignoto, sono a confronto. Il volto del padre dell’artista dipinto di scuro, in Mimesi da 7 foto, diventa un rituale del passaggio verso una dimensione senza corpo, totalmente onirica.
L’oscurità e il nero sul viso ritornano in modo preponderante negli anni Novanta. Nelle opere del 1997 – come Il centro del respiro (23 foto bianco nero), Corpo centrale (3 foto bianco nero), La radice del silenzio (24 foto bianco nero), La via del respiro(4 foto bianco nero) – assistiamo a un vocabolario formale asciutto e incisivo, dove il volto acquista centralità e si confronta continuamente con una immagine (oggettuale) immaginaria, un corpo inventato, in una dimensione unica e “metafisica”.
Nei lavori di Zaza vi è dunque un percorso ideale verso un corpo simbolico senza tempo: dalla sua figura capovolta (la testa in giù) del 1974-1975, alla presenza scultorea alla quale si accostano volti che compaiono dalla profondità del nero.
Come sottolinea Michele Zaza, nelle sue opere emerge inoltre “l’evocazione, la ricomposizione e la incarnazione di una unità perduta” che sollecita sempre “la mente a ribellarsi all’idea del maschile e del femminile”.
La forma astratta che vediamo nelle foto, quanto il viso dell’artista, o il volto femminile in Corpo centrale, emergono dal buio del silenzio, che per Zaza è “silenzio del pensiero”, ovvero un tempo meditativo, assoluto, che porta con sé anche un tempo circolare – come per l’opera La radice del silenzio, che dà il titolo alla mostra.
Le 24 foto in bianco nero mostrano il volto dell’artista attraversato verticalmente (tagliandolo in due) da una sorta di asse che mantiene un grande fiore di ovatta bianca, metafora del respiro, della luce e della leggerezza. Il ripetersi dei 24 volti esprime la scansione delle 24 ore di un giorno, la loro ciclicità. Difatti “è il tempo circolare: l’uomo scompare e poi rinasce all’infinito, perpetuandosi. Un tempo che filosoficamente può essere definito come l’immagine mobile dell’eternità immobile.”
Sia nella metà degli anni Settanta sia nella metà degli anni Novanta, Michele Zaza trasforma così l’esistenza da materiale a immateriale e viceversa. I volti cercano di apparire dall’oscurità o abitare in essa. Le opere sembrano proporre un doppio che si muove tra la nera sostanza e un’energia illuminante, a volte una fonte luminosa nascosta che irrora luce e rivela le parti.
Michele Zaza (Molfetta, 1948).
Nel 1967 s’iscrive al corso di Scultura di Marino Marini all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, dove consegue il diploma nel 1971. Si dedica fin da subito a una ricerca espressiva condotta attraverso il mezzo fotografico e già a partire dai primi anni ’70 fa parte della scena artistica internazionale. Nel 1975 partecipa alla Biennale di Parigi e nel 1977 alla XIV Biennale di San Paolo. Nel 1977 è a New York, dove espone con Giulio Paolini al Fine Arts Building. Nel 1980, sempre a New York, tiene una personale alla Leo Castelli Gallery. Nello stesso anno è invitato alla Biennale di Venezia con una sala personale. Nel 1981 è invece a Parigi con una personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Nel 1977 e nel 1982 partecipa a Documenta di Kassel. Negli anni Ottanta e Novanta espone a Parigi al Centre Pompidou (1981-1985-1993), alla Nationalgalerie di Berlino (1983), al Cabinet des estampes du Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra (1981-1992-1996) e a Mosca, presso lo Shchusev Architecture Museum (1996). Nel 2000 presenta il suo lavoro al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e nel 2004 torna al Cabinet des Estampes di Ginevra. Nel 2010 è nuovamente in mostra a Roma con una personale alla Fondazione Volume! Nel 2011 è a Martina Franca alla Fondazione Noesi e a Prato al Museo Pecci, nel 2014 è in mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e nel 2016 a Milano presso FM Centro per l’Arte Contemporanea. Le sue opere sono presenti in diverse collezioni pubbliche, tra le quali: Fondation Emanuel Hoffmann, Öffentliche Kunstsammlung (Basilea); Hamburger Bahnhof-Museum für Gegenwart (Berlino); Walker Art Center (Minneapolis); Centre Georges Pompidou e Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (Parigi); Staatsgalerie (Stoccarda); Museum of contemporary art (Téhéran); Kunsthaus (Zurigo).
Lavori dell’artista saranno presentati questo autunno a Jeu de Paume e LE BAL nella grande mostra “Scène Italienne 1960-1975” (Parigi, ottobre 2022).
03.03.2022 - 25.05.2022
opening: 02.03.2022
03.03.2022 - 25.05.2022
Dopo la mostra del 2015, Giorgio Persano è felice di presentare, al primo piano di Palazzo Scaglia di Verrua, una nuova personale di Michael Biberstein.
Le grandi opere esposte ci immergono in un’atmosfera sospesa, lasciandoci intravedere orizzonti che a stento riconosciamo, in un sovrapporsi di nuvole e profili di montagne, ottenuti attraverso ripetuti strati di acrilico molto diluito, o a spray, su lino. La texture delle tele è così impalpabile e al tempo stesso capace di intensi cromatismi, con masse di nubi che sembrano caricarsi per poi aprirsi in inaspettate schiarite.
Se dal punto di vista estetico paiono immediatamente chiari i riferimenti alle luminose volte tardobarocche del Tiepolo (fu proprio la visione dell’affresco del maestro veneziano a Würzburg a ispirare all’artista il progetto del soffitto a volta della Chiesa di Santa Isabel di Lisbona), come attenta è la conoscenza dei paesaggi “mentali” di Lorrain, Turner e Constable, i cieli di Biberstein rivelano inoltre interessanti analogie con la pittura orientale. Spostando l’attenzione sul processo pittorico, l’atto del dipingere diviene una sorta di pratica spirituale, la cui meta è tutta interiore, sia per l’artista sia per lo spettatore.
”Come ci troviamo sulla cima di una montagna e osserviamo un paesaggio sublime, l’occhio vaga sul paesaggio, lo sguardo totalmente rilassato, mai fissato a lungo su un singolo punto, la periferia del campo visivo tanto presente quanto il centro. E così, per un momento, il sé e tutto ciò che lo circonda si assorbono, coincidono”. Per l’artista il paesaggio è dunque un pretesto, un’invenzione della mente, e lasciare intravedere appigli di realtà conosciuta significa accompagnare chi guarda in una lenta esperienza immersiva. Ed è in questa dimensione di indagine psicologica, fenomenologica ed emotiva, che si esprime l’unicità e la contemporaneità di Biberstein.
Michael Biberstein (Solothurn, Switzerland, 1948 – Alandroal, Portugal, 2013).
Nel 1964 si trasferisce negli Stati Uniti. Al Swarthmore College di Philadelphia incontra David Sylvester sotto la cui guida studia Storia dell’Arte. Dopo aver vissuto tra gli Stati Uniti e la Svizzera, nel 1979 si trasferisce in Portogallo, dove trascorrerà la maggior parte dei suoi anni, sino alla morte improvvisa, sopraggiunta nel 2013.
Pittore autodidatta, dagli anni ’70 le sue opere vengono esposte in tutto il mondo e sono presenti nelle collezioni di arte contemporanea di musei e fondazioni, tra i quali: il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, il Whitney Museum of American Art di New York, il Calouste Gulbenkian Foundation Centre for Contemporary Art di Lisbona, la Serralves Foundation di Oporto, il Museu Colecção Berardo di Lisbona. Nel 2018 è stata presentata al Culturgest, Fundacao Caixa Geral de depositos di Lisbona un’importante retrospettiva dell’artista: Michael Biberstein: X, a cura di Delfim Sardo. Nel 2020 il restauro della Chiesa di Santa Isabel a Lisbona ha vinto il Premio Maria Tereza e Vasco Vilalva
07.10.2021 - 29.01.2022
opening: 07.10.2021
07.10.2021 - 29.01.2022
Dopo la grande installazione del 2007, il 7 ottobre 2021 la Galleria Giorgio Persano presenta, nello spazio di Via
Stampatori 4 – Torino, una nuova personale di Jan Dibbets dal titolo Miliardi di universi. Il percorso espositivo si
costruisce attraverso grandi fotografie realizzate nell’ultimo decennio.
Nei NewColorStudies l’artista riprende alcuni dettagli di carrozzerie di automobili, che riflettono il paesaggio circostante,
scattati in analogico per i suoi storici ColorStudies degli anni ’70, ingrandendone il negativo fino a ottenere immagini
digitali monocromatiche. L’artista, ponendosi la domanda “Cosa succederebbe se togliessi all’immagine la sua
struttura?”, con questo lavoro di sottrazione del dato di realtà – che non viene mai completamente perso – invita ad
addentrarsi in nuove possibili astrazioni.
Lo stesso processo, ma portato all’estremo, vale anche per la serie B.O.U. Tutte le opere provengono da un negativo
degli studi sul colore dei ColorStudies del 1976, divisi verticalmente in due parti. L’artista li ha ingranditi con un
programma di elaborazione digitale, dando vita per errore a composizioni astratte di colori e forme, sottolineando il ruolo
primario delle tecnologie nella rappresentazione di ciò che percepiamo.
Secondo Dibbets, infatti, “la realtà è un’astrazione”, tutto dipende dal come, dal modo in cui facciamo esperienza. La
percezione è una vera e propria potenza trasformativa che interviene direttamente nella costruzione del mondo. Se non
esiste una realtà oggettiva e universale, la fotografia non deve essere intesa come una rappresentazione
documentaristica e neutrale, ma implicare sempre una dimensione creativa legata ai mezzi tecnici in uso in un
determinato periodo storico. L’artista, citando il filosofo V. Flusser, afferma: “Queste virtualità sono praticamente
inesauribili. Nessun fotografo può sperare di scattare tutte le fotografie possibili. L’immaginazione della macchina
fotografica è più grande di quella che può avere un singolo fotografo o l’insieme di tutti i fotografi al mondo. È
precisamente questa la sfida del fotografo”.
Sia nei lavori monocromatici NewColorStudies (2010-2014) sia nella serie B.O.U (2019), la tematizzazione del passaggio
dall’immagine analogica a quella digitale è centrale. Si tratta quindi di comprendere quali siano gli effetti percettivi di
questa transizione e a che tipo di realtà ci diano accesso. Con queste opere, Jan Dibbets ci offre dunque la chiave per i
miliardi di universi che si schiudono davanti a noi quando proviamo a guardare oltre quello che si vede.
Jan Dibbets (Weert, Olanda, 1941), vive e lavora ad Amsterdam e in Toscana.
Studia presso l’Accademia d’Arte di Tilburg ottenendo il Royal Grant for Painting nel 1965. Nel 1967 frequenta la St. Martins School
of Art, Londra. Nel 1969 inizia a insegnare all’Atelier 63, Haarlem-De Ateliers, Amsterdam, dove continuerà fino al 1998. Nel 1972 è
invitato a Documenta V, Kassel, alla quale parteciperà nuovamente nel 1977, e rappresenta l’Olanda nella 36esima edizione della
Biennale di Venezia. Nel 1973-74 vive e lavora a Roma. Nel 1979 gli viene conferito il Premio Rembrandt dalla F.V.S. Foundation,
Basel. Nel 1984 inizia a insegnare all’Accademia d’Arte di Düsseldorf, dove resterà fino al 2005. Nel 1995 riceve il premio Sikkens
per il design delle vetrate per la cattedrale di Blois in Francia, presentate nel 2000. I suoi lavori sono esposti in numerosi musei e
collezioni private di tutto il mondo, inclusi Stedelijk Museum Amsterdam, Miami Art Museum, Museum of Modern Art Oxford,
Solomon R. Guggenheim Museum New York, Walker Art Center Minneapolis and Musée d’Art Moderne de la ville de Paris.
ORARI DI APERTURA
martedì – sabato: 10 – 13 | 15.30 – 19
La Galleria Giorgio Persano presenta, nello spazio del giardino interno, Afghanistan di Rob Birza.
L’opera appartiene all’omonima serie del 2005, presentata per la prima volta nella sede di piazza Vittorio Veneto e creata
a partire da fotografie di guerra, tratte dai giornali, scattate nei territori della Palestina, dell’Iraq e dell’Afghanistan. Di
queste si è deciso di riproporne una particolarmente significativa, dedicata all’Afghanistan, alla luce della recente
caduta di Kabul e del ritiro delle truppe statunitensi dal territorio afghano con conseguente restaurazione del regime
talebano, per un confronto sul tema a vent’anni di distanza tra l’inizio e la fine dell’occupazione americana.
Afghanistan è un’opera monumentale nella quale viene proposta una problematizzazione della rappresentazione della
guerra, offrendo differenti prospettive che ne complicano la lettura, spesso unilaterale, proposta dai mass-media
occidentali. Al paesaggio onirico e quasi caricaturale di un pastore con il suo gregge, non immediatamente riconducibile
all’immaginario di guerra, è accostata una cornice che “inquadra” la scena all’interno di un contesto marziale, mettendo
in luce le dinamiche di profitto economiche.
La cornice presenta infatti, sulla parte alta, il nome “Afghanistan”, che viene da noi immediatamente associato al tema
della guerra come pochi altri paesi e, sulla parte bassa, in maniera provocatoria, il nome di tre sport tipicamente
occidentali “Golf”, “Tennis” e “Surf”, a sottolineare la dimensione di profitto del conflitto. A rimarcare questa dinamica,
è anche il fatto che le parole siano tessute in lana, quasi a creare una linea diretta tra il gregge rappresentato all’interno
della cornice e le attività ludiche a noi vicine.
Il lavoro si presenta quindi come una sorta di manifesto turistico vintage paradossale, le cui contraddizioni erano e
rimangono ad oggi irrisolte.
Rob Birza (Geldrop, Paesi Bassi, 1962). Vive e lavora ad Amsterdam.
Le sue opere sono state esposte in numerose mostre personali e collettive sia a livello nazionale sia internazionale e
fanno parte di diverse collezioni pubbliche e private.
Tra le sue mostre personali ricordiamo “From the blue play till shifting circles”, De Nederlandsche Bank, Amsterdam, NL
(2016); “Cold Fusion 2000”, Stedelijk Museum, Amsterdam, NL (2000); “Cosy Monsters from Inner Space (the drawings)”,
De Pont Foundation, Tilburg, NL (1998); “REAL. My Fucking Kangaroo is damn right!”, De Vleeshal, Middelburg, NL
(1994); “Birza”, Stedelijk Museum, Amsterdam, NL (1991).
15.09.2021 - 27.11.2021
opening: 14.09.2021
15.09.2021 - 27.11.2021
La cornice presenta infatti, sulla parte alta, il nome “Afghanistan”, che viene da noi immediatamente associato al tema della guerra come pochi altri paesi e, sulla parte bassa, in maniera provocatoria, il nome di tre sport tipicamente occidentali “Golf”, “Tennis” e “Surf”, a sottolineare la dimensione di profitto del conflitto. A rimarcare questa dinamica, è anche il fatto che le parole siano tessute in lana, quasi a creare una linea diretta tra il gregge rappresentato all’interno della cornice e le attività ludiche a noi vicine.
Il lavoro si presenta quindi come una sorta di manifesto turistico vintage paradossale, le cui contraddizioni erano e rimangono ad oggi irrisolte.