Gallery
Via San Tommaso n. 7
10122 Torino
(primo piano)
La Galleria Weber è nata nel 1976. Nel corso degli anni ha ospitato più’ di duecento mostre d’arte contemporanea. Nel 2006 la Galleria cambia denominazione diventando “Weber & Weber”.
La Galleria si e’ distinta sin dall’inizio della sua attività’ per essersi occupata di giovani artisti, sia nazionali che internazionali, molti dei quali alla loro prima esposizione. All’attività’ espositiva si e’ affiancata la casa editrice “Weber & Weber” con una produzione di volumi su artisti e situazioni artistiche di taglio contemporaneo e storico.
Attualmente la galleria si occupa, con continuità, dei seguenti artisti: Silvia Amodio, Vasco Ascolini, Sandro Beltramo, Elisa Bertaglia, Gregorio Botta, Simone Bubbico, Davide Di Taranto, Federico Guerri, Horiki Katsutomi, Roberto Kusterle, Bruno Lucca, Marcovinicio, Francesco Nonino, Greta Pasquini, Jean Revillard, Sylvie Romieu, Antonio Violetta, Natale Zoppis.
Exhibits
30.10.2024 - 07.12.2024
opening: 29.10.2024
30.10.2024 - 07.12.2024
Ci viene detto di vivere nel presente ma siamo sempre perseguitati dal benigno tradimento della memoria. Il mondo che incontriamo si confronta con la vaga somma delle impressioni precedenti. Love is the drug tenta di raccontare una serie di momenti catturati, immagini di un anno che passa. Per Mac Athlaoich l’esperienza pittorica è l’insieme di entrambi questi termini in gioco, catturando il processo del fare e del vedere. Ciò che viene presentato è una serie di opere, caleidoscopiche nella disposizione, che formano una propria narrativa e dialogano tra loro. I ricordi catturati attraversano il processo di uno stato onirico, fluttuando tra rappresentazione e astrazione. Viene prestata attenzione all’inquadratura dei soggetti, giocando con le strutture già pronte all’interno dell’immagine originale e consentendo, al tempo stesso, che siano eventi casuali a determinare il risultato del dipinto. Il gioco di perdere e riconquistare un acquisto sulla memoria si svolge in tutta la serie. I dipinti di Mac Athlaoich trattano idee di materialità, processo e percezione. Le sue opere si collocano tra figurazione e astrazione, esplorando lo spazio di mezzo. La sua pratica mette in discussione il nostro rapporto con l’immagine prodotta in serie. Il materiale proveniente da piattaforme social online e l’autodocumentazione costituiscono un punto di partenza per esplorare idee di pathos e idillio contemporanei. Colm Mac Athlaoich (1980, Dublino, Irlanda) lavora e viaggia tra l’Irlanda e il Belgio. Ha studiato e lavorato con maestri incisori di The Graphic e The Black Church Print Studios. È stato co-fondatore e co-direttore della Monster Truck Gallery and Studios, Dublino. La sua precedente carriera come incisore, illustratore e musicista ha formato la sua pratica pittorica.
Orario da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
20.09.2024 - 26.10.2024
opening: 19.09.2024
20.09.2024 - 26.10.2024
Luce e ombra, bianco e nero, l’uno per l’altro per rendersi sensibili, tangibili, visibili. In Flowering clouds a svilupparsi è un doppio dialogo: uno interno, già dato e intrinseco nelle singole opere e un altro invece esterno, che viene a instaurarsi nella relazione da un lato dalle opere di Simone Bubbico e dell’altro dalle opere del duo Federica Patera e Andrea Sbra Perego. La luce rende visibile, ma è nell’ombra che avviene la restituzione della forma. Luce e ombra si danno vicendevolmente ovunque vi sia implicato un terzo elemento, quello del comunicabile. Ciò inevitabilmente apre alla dimensione temporale: contestuale come dinamica generale e riferita ad un passato presentificato come dinamica specifica. L’ombra reale data dalla terza dimensione, l’ombra rappresentata della mimesis, l’ombra metaforica che sulla carta rende visibile e leggibile una parola. La forma, il segno, la parola. E le «parti» di cui si costituiscono. L’idea di parte, di frammento, è rinvenibile tanto nell’opera di Bubbico quanto nell’opera di Patera e Perego: incarnata da un lato nella forma corporea non integra, dall’altro lo è nella forma della parola, della lettera. Ma la differenza formale lascia il passo a una rinvenibile concordanza d’intenti: che il frammento sia il luogo del potenziale, in quanto da esso dell’altro può prender vita. È dunque la parte che sta al tutto e che fa di quest’ultimo uno spazio in divenire, aperto, includente e indefinibile, come il confine delle cose che, sempre agognato e mai raggiunto, fa di se stesso la dimensione del possibile.
Irene Rossetti
19.04.2024 - 13.07.2024
opening: 18.04.2024
19.04.2024 - 13.07.2024
Sulla scena internazionale, Roberto Kusterle è un noto artista visivo e un fotografo che si contraddistingue per uno stile fotografico spiccatamente personale e per un’estetica riconoscibile basata sulla fotografia di messa in scena. Nelle sue opere crea un mondo che è frutto della sua immaginazione, dove il confine tra il reale e l’immaginario svanisce. Il motivo centrale della maggior parte delle fotografie dell’artista sono le creature fantastiche raffigurate nel processo di metamorfosi da una forma di vita ad un’altra, da uomo ad animale, a vegetale o ad altri elementi naturali. Le sue immagini ibride sono il punto di partenza per riflettere sul rapporto tra uomo e natura, sull’alienazione e su una possibile simbiosi tra di essi. Inizialmente il processo creativo del fotografo coinvolgeva anche la pittura corporale dei modelli, una lunga preparazione dei loro costumi, la scenografia e la regia delle scene surreali. L’opera finale del suo lavoro era la fotografia. Dal 2010 l’artista crea scene singolari tramite il fotomontaggio digitale. Kusterle certamente usa queste tecniche manipolative con uno scopo ben preciso: rendere visibile la sua concezione della vita che nell’ultimo ciclo fotografico include anche lo scorrere del tempo. La base del lavoro è costituita dalle fotografie di vecchie carte dell’archivio goriziano con la struttura superficiale decisamente marcata e il deterioramento: le lacerazioni, le sgualciture, le pieghe, i bordi strappati, i bolli scoloriti, le macchie d’inchiostro e l’ingiallimento, che son derivati dalla conservazione di lunga durata. Si può notare, inoltre, che i vari scatti delle vecchie carte d’archivio sovrapposti danno vita ad una sequenza compositiva ben stabilita, con la quale l’autore crea l’illusione di profondità su una superficie bidimensionale. A prima vista, sembra che le vecchie carte costituiscano solamente la base per le immagini delle figure umane tratte dal suo archivio personale, tra le quali ci sono anche le fotografie analogiche di vecchia data, e questo è un approccio alquanto diverso. Le opere mostrano chiaramente figure femminili e maschili ritratte fino alla vita, ricoperte quasi del tutto con l’argilla, considerata da Kusterle come materia originale (materia prima). Il contatto dei corpi con la terra, quindi, segna la loro metamorfosi sia in creature fantastiche dal corpo umano e la testa animale che conosciamo dalla mitologia antica, sia in creature silenziose con gli occhi chiusi, che sono rivolte verso il proprio mondo interiore e fluttuano nell’assenza di spazio. Anche le coppie e i gruppi di corpi nella maggior parte delle immagini sono rappresentanti con posture tese e inconsuete oppure intrecciati tra di loro in abbracci spasmodici, che danno un’impressione di inquietudine e tensione sia a livello fisico che spirituale. Tuttavia, in questo ciclo le figure non sono affatto l’obiettivo principale della ricerca dell’artista. Vale a dire, l’attenzione centrale è posta all’equilibrio cromatico e tonale tra le figure e la base cartacea, ottenuto soprattutto attraverso la sottrazione del colore e dei forti contrasti. Nella maggior parte delle immagini la grana della pelle e dei vestiti si fonde con la carta, mentre le singole figure sono quasi trasparenti, immerse nello sfondo con il quale formano un tutt’uno. Questo effetto viene accentuato dall’artista attraverso vari dettagli creati con gli strumenti digitali: l’ingiallimento e le macchie, le lacerazioni e i fori presenti si diffondono dalla carta alla superficie dei corpi. Lo spettatore non può più distinguere tra i frammenti originali e quelli ricreati con l’aiuto delle nuove tecnologie o tra la superficie della pelle e la carta. Anche nel suo ultimo ciclo Kusterle esplora il sottile confine tra realtà e finzione, completamente cancellato con la comparsa dei programmi digitali. D’altra parte, le sue opere si riferiscono agli inizi della fotografia, soprattutto alla ricerca di Henry Fox Talbot, inventore del negativo, che ha consentito la riproduzione delle immagini fotografiche. In alcune opere Kusterle ha unito i positivi e i negativi in coppie per aumentare la tensione visiva, caratteristica della sua espressione fotografica con la quale costantemente induce ad una riflessione sull’identità della fotografia. La fusione del reale e dell’immaginario, dell’umano e dell’animale/vegetale, dell’animato e dell’inanimato, ovviamente, porta anche lo spettatore a cercare in scene ambigue nuovi significati che si possono legare sia al passato sia allo stato d’animo contemporaneo. Nataša Kovšca
Orario da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
31.01.2024 - 06.04.2024
opening: 30.01.2024
31.01.2024 - 06.04.2024
Le campiture di Rodrigo Blanco, in piena e leggibile evoluzione con il lavoro che si sta delineando negli ultimi anni, prendono il sopravvento sugli elementi linguistici. Nelle distese uniformi si delinea una sorta di deserto nel quale l’essere pare esodato, a dispetto della tela, dei curatori, del pubblico, dell’artista stesso. Egli governa ma cede come a perdersi nel soggetto che origina nel quadro, ovvero nel luogo che lo ospita quasi di scorcio. Allora più che esodo è esondazione, è l’idea di moltiplicarsi attraverso le pareti, è affresco potenziale. I quadri mettono in mostra la magniloquenza della campitura, con il contrappunto di radi alfabeti pittorici che tracciano le linee di una sorta di elemento pompeiano perenne. Ma come a recuperare il senso della presenza dell’artista-autore che forma il mondo ed in esso agisce anche come entità politica, Rodrigo Blanco lascia dialetticamente spazio al disegno a carboncino nell’atto di fissare alcuni istanti nello spazio antropomorfo. L’origine della presenza disegnata prende momentaneamente il sopravvento su tutte le superfici, su tutte le presenze di vibrazione pura.
La questione dell’istante è centrale. E anche il suo realizzarsi attraverso l’occupazione del “suolo” della superficie pittorica.
La superficie è l’agognata meta di ogni essere umano. Si conosce la superficie del corpo e si lotta per rimanere vivi su quella del mondo. Il lavorio di essere, di esistere, di non scomparire è perciò il grido e il canto di ciascuno. La superficie è il campo della presenza e del desiderio. La linea sottile di demarcazione tra il sublime e l’infernale. Si dice crosta per la pelle ispessita e per il quadro sbagliato, per i muri fatiscenti e per la lamiera che arrugginisce, ma al di là del disprezzo verso tutto ciò che non è liscio, è la crosta terrestre il nostro unico campo d’azione. È attraverso di essa che il nostro mondo entra nella sfera del possibile. È semplicemente il qui ed ora di ciò che prima era magmatico e inafferrabile.
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Fabio Vito Lacertosa
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Dinamismo di una figura statica, olio su tela, 150×100 cm, 2021
02.11.2023 - 20.01.2024
opening: 31.10.2023
02.11.2023 - 20.01.2024
Nella nuova mostra personale A Place for Lost Things, Damien Flood continua a spingere e provocare i limiti e i confini della pittura e della loro stessa realizzazione. Una domanda centrale nella pratica di Flood è come, nei tempi moderni, un artista possa raffigurare il mondo che lo circonda. Negli ultimi tre anni attraverso la ceramica Flood ha trovato un nuovo modo di esprimersi inserendo nel suo lavoro significati diversi e più diretti. Il processo di lavorazione dell’argilla rafforza il collegamento con le idee di un passato storico e archeologico, scavare per portare alla luce manufatti ultraterreni. La ceramica inserita nei e fra i dipinti permette a questi di prendere vita e seguire il proprio percorso nel mondo come individui. In questa nuova serie di lavori Flood presenta allo spettatore principalmente dipinti di grandi dimensioni accanto a piccole opere in ceramica che si integrano e interagiscono con elementi di vari stili, approcci e tecniche. I dipinti sembrano costruire un mondo statico, fermo nel bel mezzo del più totale disfacimento in grado di porre domande e riflessioni allo spettatore. Le ceramiche, invece, invitano il pubblico a interrogarsi sul ruolo degli artefatti e su come affrontiamo culturalmente l’inevitabile sfumatura sarcastica presente in questi lavori. Queste opere sono state realizzate con lenta fatica proprio per invitare l’osservatore a una lenta visione. I dipinti possono essere suddivisi in interni ed esterni, ovvero, gli interni mostrano qualità antropomorfe; i confini tra ciò che è animato e inanimato sono sfumati. Mentre negli esterni nuovi elementi ‘vitali’ entrano nei lavori dell’artista.
Valeria Ceregini
15.09.2023 - 28.10.2023
opening: 14.09.2023
15.09.2023 - 28.10.2023
Sentieri di giunco è il nome che ho pensato per questa serie di paesaggi perchè in origine questo tipo di vegetazione mi ha ispirato molto. Il mio lavoro in effetti si origina in luoghi naturali dove sentieri, staccionate, recinti e confini rappresentano un microcosmo geografico che forma la visione del mio paesaggio. Mi piaceva l’idea di sottolineare il mio segno a bastoncino con cui lavoro da sempre e inoltre il giunco da quel senso di geometria e ordine che mi rispecchia anche quando è rappresentato nel groviglio o nel disfacimento. L’idea di lavorare sul paesaggio e la natura non sono quindi nuovi per me, ma hanno trovato un nuovo vigore circa tre anni fa con il lavoro che ho intitolato Jack London perché in quel periodo lo stavo leggendo e perché alcune sue visioni rappresentavano una matrice per uno scenario selvaggio. Alcuni di questi paesaggi sono stati realizzati a cavallo di maggio, il mese dell’alluvione nella città dove vivo (Cesena) e per me contengono appunto questa lotta implacabile tra l’ordine e la natura.
Federico Guerri
16.06.2023 - 09.09.2023
opening: 15.06.2023
16.06.2023 - 09.09.2023
ore 18:00 – 21:00
da martedì a sabato, ore 15:30 – 19:30
La profondità purpurea del cielo è scossa da un improvviso fragore, inaudibile e accecante insieme, che lacera lo spazio della tela, mentre si staglia, immobile e severa, un’alta torre rosseggiante. Poco a poco, intravediamo dettagli che ci turbano: un cratere imprevisto, un’ombra fantasmagorica, o ancora, in lontananza, la silhouette di un carro che sfreccia verso la città più vicina. Non ci troviamo in una leggenda o in un sogno, bensì in Tower (2022), opera scaturita dal vasto immaginario di Bogdan Koshevoy (Dnipro, 1993), artista ucraino da lungo tempo residente a Venezia. Koshevoy, giovane pittore figurativo e visionario al contempo, presenta in questa mostra personale un nuovo ciclo di opere che costituisce il naturale prosieguo della sua ricerca attorno all’architettura e al paesaggio. Infatti, i protagonisti prediletti dall’artista di Dnipro sono spesso edifici caratterizzanti le aree interne dell’Ucraina, costruiti lungo tutto il corso del Novecento e lasciati poi in abbandono o demoliti intenzionalmente dopo la fine della dominazione sovietica. Pur rimanendo saldamente ancorato ad una rappresentazione d’ispirazione realistica, Koshevoy ci mostra paesaggi dagli echi fantastici, a tratti mitici, certo non privi di elementi disturbanti, talora grotteschi. In queste mostre l’atmosfera è perlopiù pervasa da un senso di inquietudine che accompagna la rivelazione di tragedie appena avvenute, colte altrimenti nel momento stesso in cui esse si compiono, se non l’annuncio di vere e proprie catastrofi. Mai del tutto disabitati, questi luoghi accolgono e rigettano a più riprese una vasta fauna umana e zoologica, un catalogo di presenze sopraffatte da lotte, agguati, scoperte inattese, mutazioni, oppure, dove la portata degli eventi acquisisce dimensioni più epiche, da fenomeni atmosferici e astronomici dalle conseguenze inarrestabili.
Da un punto di vista identitario, Koshevoy ama definirsi come il frutto di un intreccio di culture, un connubio di influenze ben esplicato dagli eclettici edifici ucraini la cui storia, secondo l’artista, non è mai stata sufficientemente studiata e valorizzata. Partendo dai relitti dell’età zarista per giungere a quanto lasciato in rovina durante la crisi economica seguita al dissolversi dell’URSS, Koshevoy rende un personale e accorato omaggio a intere pagine di architettura destinate alla damnatio memoriae, una stratificazione emblematica di stili e fasi politiche dal valore spesso controverso. Ci rendiamo poi conto che, spesso, niente è esattamente come appare: Tower, ad esempio, non è altro che un serbatoio idrico dall’aspetto inusualmente elegante agli occhi degli occidentali, mentre il carro sullo sfondo riprende fedelmente un giocattolo di propaganda sovietica passato di generazione in generazione, fino ad essere raccolto dalle mani del pittore. Ai serbatoi seguono altrettanto solitarie magioni, fabbriche mai del tutto dormienti, parchi divertimenti malinconicamente proiettati nel futuro (Zvezdnij Teleport, 2022), mentre prevale il calore del mattone e non mancano finestre illuminate, ancor più sorprendenti nel momento in cui suggeriscono scene da racconto giallo alla Agatha Christie (A murder in the blue house, 2022). Tutt’attorno si dispiega una natura lussureggiante, a tratti esotica, spesso sconfinante in praterie d’un verde accecante, cui si alternano tonalità più polverose, fino a rappresentare gli esiti di una vera e propria apocalisse indeterminata nel tempo e nello spazio (Solitude, 2023), dove scheletri di epoche geologiche e specie diverse emergono dalla terra riarsa, magra consolazione per l’avvoltoio sullo sfondo, unica creatura eletta ad una, seppur breve, sopravvivenza. Da sempre affascinato dal mondo animale, Koshevoy ha già mostrato in opere precedenti l’idilliaca convivenza tra creature considerate estinte ed esseri umani (come si può vedere in Cretaceous Utopia, 2021), quasi un possibile risvolto utopico di quanto prefigurato nel film muto The Lost World (Harry Hoyt, 1925), immaginando un equilibrio tra specie e civiltà altrimenti incompatibili. In queste nuove opere, invece, la presenza animale si fa perlopiù sinistra, se non antagonista, facendo precisi riferimenti alla simbologia naturale nella storia dell’arte occidentale: ad esempio, la scimmia è frequentemente associata al demoniaco (Encounter with the pink demon, 2022), mentre il coniglio può rimandare ad una sessualità sfrenata. Il paradiso si fa sempre più corrotto e in fiamme (Invasion, 2022), mentre le viscere della terra si aprono su dimensioni sconosciute (Out of curiosity, 2023). Stando a quanto affermato dallo stesso artista, la steppa totale dell’Ucraina viene trasfigurata al punto da diventare non solo un luogo mentale turbato dall’inconscio, ma un vero e proprio spazio della memoria. Nonostante il loro destino avverso, le architetture di Dnipro si trasformano a loro volta in un simbolo, un autentico punto di riferimento per la vita di Koshevoy, il quale ha scelto Venezia, da sempre considerata la porta d’Oriente, per proseguire prima gli studi e poi la carriera artistica: il luogo ideale per iniziare a scoprire il mondo e, al tempo stesso, riscoprire sé stessi.
Eleonora Ghedini
14.04.2023 - 10.06.2023
opening: 13.04.2023
14.04.2023 - 10.06.2023
h 18 – 21
Incantati, silenziosi, rarefatti. Sono questi gli ambienti in cui il fotografo Ugo Ricciardi libera un immaginario buio e luminoso in perfetto equilibrio. Un’ idea nata per caso, giocando con le luci di Natale dei figli, e sostenuta dalla necessità di solitudine, silenzio e natura. Il principio è fondamentale: applicare l’idea al paesaggio, evidenziando l’intervento del fotografo. L’ ispirazione è unica: l’ inconscio. Così l’autore trasforma luoghi a lui familiari in visioni magiche in cui l’oscurità e la luce della luna fanno da sfondo a misteriose entità lucenti. Essenziale è l’uso del bianco e nero che aiuta ad uscire dal realismo del colore, portando lo sguardo al di là della superficie in un piano in cui lo spazio e il momento sono assoluti. Il metodo di lavoro è lungo e impegnativo. Di giorno la scelta delle inquadrature, gli alberi, le radici e i sassi, fantasticando su quello che potrebbe succedere durante il plenilunio, quando il chiarore della luna crea ombre lunghe e silenti. Di notte la sperimentazione con i cerchi di luce artificiale che nella penombra si animano di nuova vita, prendendo contorni diversi, sfuggevoli, mentre tutto il resto è ammantato dalle tenebre. Il risultato è “Nightscapes”, un mondo sospeso tra realtà e sogno, caratterizzato da ombre di luce fumosa, in cui la messa in scena regna sovrana, mentre la simmetria e la geometria degli spazi rendono saldo il concetto. Un percorso spirituale e artistico per cercare la propria strada, annunciato in apertura dalle scie di luce che accompagnano l’osservatore ad addentrarsi nell’inconscio senza cercare un senso se non alla fine. Ed ecco il primo passo, ci troviamo faccia a faccia con una simbolica porta di ingresso sormontata dall’unica vera musa di Ugo, la luce. Una guida in un’atmosfera irreale, dove i momenti di transizione e osservazione coesistono in una pace quasi ultraterrena. Un luogo di passaggio, abitato da anime luminose in perfetta simbiosi con la natura, che avvolgono l’ osservatore facendolo diventare parte stessa di quel mondo. Una realtà che ci viene svelata appena e che lascia spazio all’immaginazione e al significato personale. È proprio questo l’obiettivo finale di Ugo Ricciardi, riscoprire l’ importanza di una visione individuale e soggettiva, facendo di “Nightscapes” un’ascesa onirica alla creazione artistica.
Vanessa Ferrauto
Iceberg and circle of light#1, Iceland, 2021
10.02.2023 - 08.04.2023
opening: 09.02.2023
10.02.2023 - 08.04.2023
Artisti: Carlo Battaglia – Gregorio Botta – Gianni Del Bue Chiara Dynys – Gillian Lawler – Bice Lazzari Colm Mac Athlaoich – Pino Mantovani – Carol Rama – Stefan Sehler – Sergio Sermidi – Trudi Van Der Elsen Michael Van Ofen – Antonio Violetta – Valentino Zini
La Galleria Weber & Weber ha raccolto, in questa mostra, quindici autori già incontrati ed esposti nel corso degli anni. Cosa proviamo, quale sensazione nell’incontrare persone, ma anche figure, libri, oggetti, dopo un discreto periodo di tempo?
Qualcosa di dolce e amaro, sovente, un effetto di spiazzamento. Noi e loro. Entrambi un po’ diversi, spaesati. Un tempo né vicino né lontano, che respira ancora nel presente, lo incalza. E’ rimasto lo stesso tono di voce? O le cose vicine hanno già preso l’aura della lontananza? Come nella vita; cose che sembravano congiunte si separano, altre che sembravano distanti si avvicinano. Occorre un secondo sguardo, che è poi il vero sguardo, quello che mette a fuoco nella distanza, e lascia emergere ciò che la vita ha tessuto in silenzio. Figure inaspettate, percorsi imprevisti. Il tempo trascorso ha dato profondità, sfondo, anima. Pavese c’insegna bene: non c’è inizio fuori dal ritorno, non c’è la prima volta che non includa in sé la seconda. Conoscere è ri-conoscere.
Dario Capello
Stefan Sehler, Senza titolo, 1995, olio su tela, cm 200×150
03.11.2022 - 21.01.2023
opening: 02.11.2022
03.11.2022 - 21.01.2023
La galleria partecipa a:
TORINO ART GALLERIES NIGHT #25
SABATO 5 NOVEMBRE 2022 ore 17,00 – 24,00
&
TAG Art Coffee Breakfast
venerdì 4, sabato 5 e domenica 6 novembre dalle ore 9:30 alle ore 12
La mostra documenta l’opera di Horiki Katsutomi (1929-2021), artista colto e raffinato, nato in Giappone. Dopo la laurea in Ingegneria, si trasferisce in Italia per dedicarsi totalmente alla pittura. Frequenta l’Accademia Albertina di Torino, esordendo con opere caratterizzate da segni astratti, da lui definiti “impronte”, che collocava in vasti campi bianchi o neri. Dagli anni ottanta torna quindi a impostare la sua pittura sul colore con un ciclo di dipinti ispirati a Piero della Francesca, Storia della Vera Croce, mentre dagli anni novanta lavora su temi ripresi dall’Odissea. Della sua pittura Horiki scrive: “Cerco un linguaggio universale per parlare con me stesso e con gli altri, per capire il mio essere e fare capire come penso, quindi come sono, ad altri, per confrontare e correggere la mia rotta. Anche a costo di fare una lunga tortuosa strada. […] La mia vita è la mia opera”.
da martedì a sabato ore 15:30 – 19:30